L’intervista al finalista del Premio Costa Smeralda. L’autore e filosofo è protagonista di Impariamo a vivere, edito da Laterza
A volte basta un inciampo. Un evento casuale. E in men che non si dica può nascere l’occasione per una lunga riflessione sull’esistenza. È accaduto a Maurizio Ferraris, filosofo, scrittore, professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino. E da oggi finalista del Premio Costa Smeralda nella sezione Saggistica. Con il suo Impariamo a vivere, pubblicato da Laterza, è riuscito a convincere i giurati in merito ai ragionamenti che ruotano attorno all’esistenza. Un percorso che passa attraverso diverse stazioni – Vivere, sopravvivere, previvere, convivere – che mettono al centro la vita e il suo valore.
La giuria l’ha scelta tra i finalisti del Premio Costa Smeralda. Come si sente a essere stato selezionato per questo premio?
Felice e onorato.
Quando è nata l’esigenza di scrivere questo libro?
C’erano riflessioni stratificate negli anni e che, giunti a un’età che non mi sarei immaginato di raggiungere (da ragazzo i sessantotto anni, la mia età oggi, li vedevo come il colmo della decrepitezza), erano forse mature per venir messe su carta. Il vero detonatore, però, è stata la caduta da cui prendo avvio nel libro: io che scivolo a fine 2022 e mi rompo l’omero. Da una parte, è stato un segnale: “avresti potuto romperti la testa, sbrigati a scrivere quel libro!”; dall’altra, la stanzialità forzata per qualche settimana mi ha dato il tempo di iniziare a scrivere questo libro diverso dai tanti altri che ho pubblicato in vita mia, anche se poi ci sono voluti dei mesi per trovare la forma definitiva.
Le sue riflessioni passano nelle varie tappe dell’esistenza umana. Le prime sono vivere e sopravvivere. Cosa intende per sopravvivenza e se è riuscito a trovare delle risposte
Più che tappe sono forme che l’esistenza può prendere, e che possono presentarsi a qualunque età. Per esempio l’idea del sopravvivere, la possibilità di una vita dopo la vita, si è presentata in me molto presto, sicuramente avevo meno di dieci anni: la morte era ancora lontana eppure, ricordo, mi chiedevo se ci fosse qualcosa dopo. E concludevo che purtroppo non c’era niente. È la conclusione a cui arrivo ancora adesso, dopo tanti anni. Va aggiunta una nota: tra la mia infanzia e ora, per decenni, ho pensato a una sorta di resurrezione debole o di sopravvivenza vicaria, quella dei libri che ho scritto e della memoria che possono lasciare; ma ora non ci credo più, mi sembra una specie di visione allucinatoria. Perché non escludo che qualcuno, poniamo, tra cent’anni, vagando per il web, incappi in queste righe e magari le legga: ma questo significa una sopravvivenza per me? Ovviamente no.
Un altro aspetto interessante è legato al concetto di “previvere”. Come ha sviluppato questo punto? E, domanda personale: quanto la sua vita presente somiglia a quella immaginata da ragazzo?
Il previvere sono le anticipazioni dell’esistenza che da ragazzi ci formiamo attraverso la lettura di libri, e in particolare di romanzi. Non so se funzioni così per chi è giovane oggi, ma sta di fatto che più di mezzo secolo fa ebbi l’idea (dettata da un ingenuo snobismo, ma avevo quattordici anni) di leggere Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Lo lessi una volta e poi, chissà per quale meccanismo, lo rilessi molte altre, tanto che a volte mi sembra che la mia giovinezza si sia consumata nella rilettura di un romanzo e poco più. Cercavo appunto di anticipare, leggendo quelle pagine, quella che sarebbe stata la mia vita. Una vita che, ovviamente, ha poi preso vie molto diverse da quelle pensate in anni in cui si sa davvero poco della vita. Però in molti momenti, felici o tristi, mi è capitato di pensare che ciò che mi accadeva era una specie di ripetizione o di resurrezione di eventi narrati nella Recherche: ed era il fine che si prefiggeva Proust, che sarebbe soddisfatto, o addirittura felice, se solo si potesse sopravvivere attraverso i libri; ma abbiamo appena visto che non si può.
L’ultimo punto, “convivere”, è forse la vera chiave della nostra esistenza. Può la cultura, anche alla luce dei suoi studi, essere uno strumento per riavvicinarci e comprendere il mondo in tutte le sue differenze?
Se la cultura non riuscisse a riavvicinare gli umani tra loro, al di là delle differenze, non avrebbe senso, e il tempo passato ad acculturarci sarebbe tempo sprecato.
Riccardo Lo Re